Alberto Moreno, la musica di quei favolosi anni ’70. Il Museo Rosenbach
E’ partito per il Giappone e con il «Museo» sarà uno dei protagonisti dell’Italian Progressive Rock festival di Tokyo. All’inizio degli anni ’70, insieme a Pit Corradi (chitarra solista), Giancarlo Golzi (batteria), Marco Biancheri (voce), Enzo Merogno (chitarra), Leonardo Lagorio (fiati) e il cantante Stefano “Lupo” Galifi, Alberto Moreno fa nascere l’Inaugurazione del Museo Rosenbach, una delle band Progressive più preparate ma anche più sfortunate. Un busto del duce disegnato sulla copertina del primo disco, Zarathustra, ne decretò il requiem. Ma quel disco è rimasto negli annali tanto che per molti rappresenta l’icona della musica Progressive italiana.
Sembra anche a lei che le giovani generazioni stiano tornando ad apprezzare il prog. Perchè?
«Credo di sì. Resta comunque un fenomeno di nicchia perchè presuppone un ascolto non facilmente omologabile. Attira un pubblico riflessivo intenzionato ad immaginare scenari svincolati dalle tematiche strettamente sentimentali; la mutevolezza delle strutture musicali “disorienta” i pigri. Penso che le colonne sonore dei videogame, spesso enfatiche e d’effetto, abbiano aiutato questo avvicinamento».
Quindi nella vostra nuova formazione spazio ai giovani, ai talenti... «
Sì. Per ragioni legate al trascorrere del tempo il Museo ha già inserito nuovi elementi per animare con fresche sensibilità il discorso musicale del gruppo».
Perchè il Giappone e diventato il tempio del Prog italiano?
«Questo è un mistero. Negli anni 70 i Genesis e i Gentle Giant erano più apprezzati in Italia che in Inghilterra all’inizio delle loro carriere. In Giappone c’è forse una volontà manageriale più attenta ai generi musicali cosiddetti minori».
Se quella copertina col busto del Duce non avesse detto stop alla vostra avventura, il Museo cosa altro poteva offrire musicalmente?
«Non è stato il busto di Mussolini a fermarci. Una band è sempre in equilibrio instabile e a 20 anni le sollecitazioni centrifughe erano maggiori di ogni concreta prospettiva professionale».
Anni ’70 e problematica tra musica e cultura
«Sì, mi piacerebbe insistere a proposito del fraintendimento ideologico che ci ha molto condizionato negli anni 70. Mettere in musica rock alcuni passaggi del pensiero di Nietzsche è stata un’impresa coraggiosa per non dire incosciente; citare il superuomo senza possibilità di argomentare il suo vero significato fu un atto di autolesionismo».
Cioè?
«Vorrei solo ricordare che avevamo avvisato nelle note di copertina che il protagonista del nostro disco non andava considerato come un profeta razzista bensì come un uomo diverso in grado di superare i pregiudizi e le ipocrisia di un mondo che voleva cambiare».
Ho la sensazione che intendete proseguire su quella strada
«Con il nuovo lavoro “Barbarica”, uscito in questi giorni, in effetti il Museo insiste sulle problematiche di una civiltà che nel tempo sente la necessità di migliorarsi. Nella suite iniziale affrontiamo, nei limiti di una composizione musicale, la tematica ecologica che era già presente in Zarathustra quando, attraverso le sue parole, auspicavamo un’esistenza in sintonia con l’ambiente naturale, scenario essenziale alla nostra sopravvivenza. Il discorso continua dopo 40 anni e il cantore di Barbarica chiede al Pianeta qual’è il suo stato di salute. La Terra risponde con un respiro rassicurante.
Quindi abbiamo speranze?
«Nel futuro, credo ci sia ancora la possibilità di rimediare alla sconsiderata superficialità con la quale l’uomo tratta il suo habitat. Nel concept del nuovo album tuttavia abbiamo sentito fortissima l’esigenza di un sguardo realistico sul presente del mondo. Se l’ambiente può essere ancora salvato questo non significa che l’umanità sopravviverà. E’ necessario che l’uomo agisca per eliminare il diavolo della guerra che in ogni momento insidia il suo cammino; l’odio, lo spirito di vendetta, la violenza in genere avviliscono le nostre aspirazioni più nobili e le neutralizzano in un ingorgo di stupidità e violenza. Zarathustra non è citato nel nuovo album ma è presente in questo richiamo a superare l’errore, il male, l’assurda convinzione che la convivenza imposta dalla crescita della nostra civiltà possa essere risolta con l’annientamento di chi non la pensa come noi».
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